A Cheese la tutela per la biodiversità si fa micro

21 Sep 2009 | Italian

«I batteri sono i veri produttori del formaggio, i casari ne sono solo gli addomesticatori». Questa la battuta di Roberta Loi, responsabile della sede di Milano del Cnr-Ispa, nel corso di un incontro che ha affrontato uno dei temi più spinosi nella caseificazione moderna, l’impiego nella produzione di fermenti non coltivati in azienda. Nella giornata conclusiva di Cheese 2009, a Bra si è discusso di microflore ma soprattutto della necessità di preservare la biodiversità a partire dalla microflora batterica, anche in ragione della sua capacità di contrasto agli agenti patogenei che, in passato, permetteva di ottenere prodotti igienicamente validi e conservabili.
«Il formaggio è un bio reattore, dove avvengono una serie di trasformazioni dovute alla presenza di esseri viventi” – ha precisato ancora la professoressa Loi, aggiungendo: “La loro presenza è fondamentale per abbassare il ph della cagliata e determinare la produzione di acido già nelle prime ore di caseificazione, con un’efficace azione di contrasto ai contaminanti. Oggi però si sta perdendo la biodiversità della microflora indigena, mentre il mantenimento delle colture caratteristiche di ogni singola vallata è l’unico sistema per assicurare una biodiversità che garantisca anche in alpeggio la stagionatura di prodotti igienicamente validi e protetti».
Tante le alternative, come hanno dimostrato le testimonianze portate a Cheese. Giampaolo Gaiarin del consorzio Trentingrana ha messo in rilievo come l’utilizzo di latte-innesto (microrganismi selezionati che si sono sviluppati naturalmente nel latte) possa garantire prodotti non omologati, che caratterizzano fortemente i formaggi. Una metodologia di produzione, questa, oramai consolidata in Trentino nelle produzioni di maggior pregio. Tuttavia, «l’utilizzo di una coltura naturale, preparata in azienda, mette in gioco la capacità del casaro» – ha detto ancora Gaiarin – «Questo perché non esiste una ricetta per la produzione di un latte-innesto. Si tratta di un modo di produrre, che spesso viene superato dalla facilità di utilizzo di fermenti già pronti».
«Esiste una strada diversa?» – si è chiesto retoricamente Piero Sardo di Slow Food, sostenendo che l’utilizzo di preparati faccia «venir meno i concetti di naturalità e di territorio che i formaggi dovrebbero portarsi dietro. L’attenzione per le microflore batteriche è l’altro aspetto rilevante della battaglia che abbiamo lanciato dieci anni fa a favore delle produzioni casearie a latte crudo».
Altri esempi non mancano, a partire dai Presìdi Slow Food. Da Maja Bischof che produce burro crudo con panna acidificata nell’area zurighese ai caseificatori bulgari del formaggio verde di Cherni Vit, per il recupero e la valorizzazione del quale si è messo in azione un movimento che è andato a toccare aspetti connessi non solo con la produzione ma anche con i limiti della legislazione nazionale. Quali le criticità? La temperatura di conservazione del latte, la concentrazione della flora batterica e i tempi di produzione, tanto che secondo Klaus Gutser dell’Università Tecnica di Monaco di Baviera, che a lungo ha studiato i ceppi di batteri presenti nei prodotti lattiero-caseari, anche questo è il significato di un cibo “slow”: «In una produzione industriale di Emmental, utilizzando fermenti preparati, occorrono sei settimane per la stagionatura, tempi che si ampliano in una produzione artigianale ma che arrivano a sette mesi utilizzando fermenti prodotti in azienda».

Change the world through food

Learn how you can restore ecosystems, communities and your own health with our RegenerAction Toolkit.

Please enable JavaScript in your browser to complete this form.
Full name
Privacy Policy
Newsletter