CHEESE 2005 – “Lieviti, innesti e starter: autoctoni è meglio”
16 Sep 2005 | Italian
Alle ore 10 di stamane il primo atto di apertura di Cheese è stato il convegno, organizzato da Slow Food e dal Consorzio del Formaggio Parmigiano-Reggiano, intitolato Lieviti, innesti e starter: autoctoni è meglio. Garantire ai prodotti fermentati – formaggi, vini, salumi – qualità e legame sul territorio. Tematica, questa, strategica per il comparto lattiero-caseario innanzi tutto, che deve far fronte, soprattutto per le produzioni dop, a una crisi di abbassamento dei prezzi alla produzione che si sta facendo drammatica, come ha sottolineato il direttore del Consorzio Leo Bertozzi. Una triste realtà imposta dall’allargamento della dimensione globale del commercio, che impone un’attenzione sempre più decisa della qualità come affermazione della tipicità e del legame con il territorio.
«Qualità non può essere solo evitare i rischi, ma cercare i fattori che rendono diversi i prodotti. La pastorizzazione uccide la flora nativa (il parmigiano reggiano è un formaggio a latte crudo, ndr) il ruolo dei fermenti autoctoni è essenziale e costituisce un ancoraggio fondamentale al territorio. L’uso di questi fermenti è una scelta che può rendere competitivi» ha detto Bertozzi.
Più articolata la posizione degli scienziati chiamati a illustrare il ruolo di batteri e microrganismi nella produzione degli alimenti fermentati. Donato Lanati dell’Istituto Enosis ha evidenziato quanto un lievito incida sull’identità di un vino, caratterizzandone il profilo sensoriale; prevalente per l’enologo rimane la necessità di condurre la fermentazione con sicurezza, e di qui l’utilizzo di lieviti selezionati, senza che per questo quelli autoctoni vengano eliminati. Diverso è il caso del latte per la produzione di formaggio, in cui la pastorizzazione uccide tutta la flora batterica naturalmente presente. Secondo Pier Maria Toppino dell’Istituto Sperimentale Lattiero Caseario di Lodi, si deve distinguere a seconda del tipo di produzione che si deve fare. Indubbiamente per poter utilizzare latte crudo (e quindi i fermenti autoctoni) si deve partire da una materia prima di ottima qualità. Ma va anche tenuta presente la necessità dell’industria che deve garantire tempi di conservazione lunghi, standardizzazione del prodotto e lavorazioni di grandi quantità.
«In tutto questo l’importante per il consumatore è poter scegliere con cognizione di causa» ha concluso Piero Sardo, presidente della Fondazione Slow Food per la Biodiversità. «Si deve dichiarare con chiarezza che tipo di produzione si sta facendo e rendere questo facilmente riconoscibile agli occhi dei consumatori; i quali certamente non potranno nutrirsi tutti i giorni di bitto delle Valli del Bitto o di robiola di Roccaverano autentica, ma non devono comunque essere vittima di mistificazioni o di messaggi fuorvianti nella scelta del cibo. L’utilizzo di lieviti, fermenti e starter selezionati in laboratorio costituisce il primo piccolo tradimento nei confronti del territorio da cui provengono le materie prime. Per ovviare ai problemi che l’utilizzo dei fermenti autoctoni presenta, trovi la scienza, con la ricerca e gli esperimenti, il modo per migliorarli e farli lavorare bene.»
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